Mare

Magismi difensivi, religiose impetrazioni

Il mare ha da sempre una natura intrinsecamente ambivalente, vitale e mortifera.
Per rintuzzare, arginare, se possibile scongiurare tale imponderabilità l’uomo ha cercato di sviluppare strategie adattive sia in funzione propiziatoria, sia, soprattutto, per affrontare la pericolosità di una tempesta, il vortice devastante di una tromba marina, il possibile naufragio salvando la propria vita mediante il ricorso a pratiche di natura magico-religiosa. Dove si arresta il sapere empirico, il saper fare di un uomo di mare affinatosi nel tempo, dove la propria pur sapiente ed elaborata esperienza più nulla può dinnanzi a pericoli soverchianti, la difesa slitta sul piano di riti che chiamano in causa la sfera divina, popolata di santi ma pure da demoni. Il marinaio cerca quindi nel sovrannaturale le risposte, gli interventi possibili per guadagnarsi la salvezza. Più nel dettaglio, come ricordano Lombardi Satriani e Meligrana, la risposta di natura pratica e realistica con cui si fronteggia il pericolo attingendo alla propria esperienza pratica di naviganti è parimenti irrelata a procedimenti simbolici che ne accentuano l’efficacia complessiva. In parallelo anche il rituale apotropaico pesca in un armamentario fatto di oggetti e strumenti pensati per pescare e navigare rifunzionalizzandoli all’occorrenza in chiave magica [Lombardi Satriani L.M., Meligrana M. 1985, 153, 162].
All’orizzonte di un’empiria professionale efficace nella gestione consueta e quotidiana della propria professione si aggiunge un orizzonte mitico e magico che fornisce le risposte utili per articolare e officiare una ricca congerie di riti specialistici, ovvero utili per fronteggiare questo o quel rischio. Il mito ha così la funzione di garantire efficacia a interventi variamente ritualizzati ribadendosi non solo e non tanto quale semplice e disgregata memoria di un passato arcaico ma quale strumento di riorientamento culturale efficace ancora oggi, in epoca di tecnicismi digitali che sorreggono e surrogano sempre più i know how tradizionali. In questa stretta relazione si getta un ponte tra dimensione mondana e oltremondana obbligate a cooperare per un fine salvifico a cui chi naviga e pesca non rinuncia. Si pensi alle immagini devozionali, ai corni, al ramoscello di ulivo e al rametto di palma intrecciata che “presenziano”, soprattutto in plancia, alla conduzione del natante, del peschereccio a strascico, della cianciola, tutti simboli di un orizzonte magico-religioso che il marittimo imbarca sul proprio mezzo di pesca e lavoro, ieri come oggi.


Che a salvarsi siano barca e reti innanzitutto

Chi naviga ama la sua barca quanto la sua stessa vita sa quanto sia necessario, anzi, imprescindibile, proteggere entrambe ad ogni costo. Un numero veramente ragguardevole di usanze difensive e propiziatorie riguarda, come è facile intuire, non tanto e non solo l’uomo di mare, ma mezzi e strumenti del suo lavoro da cui, alla fin fine, dipende la sua medesima sopravvivenza. Magna pars di tutti codesti rituali è quella rivolta alla difesa dell’imbarcazione.
Imbarcandoci su un qualsiasi tipo di natante, dal peschereccio all'aliscafo, possiamo dunque constatare come ancora oggi sia presente l'usanza di porre immagini di santini o cornetti di corallo nella cabina del comandante, in timoneria, a prua e a poppa, elementi scaramantici magico-religiosi posti sull'imbarcazione per attirare la buona sorte. Il rapporto tra il pescatore e il mare, dunque, passa proprio attraverso la mediazione di oggetti caricati di potere difensivo come pure di immagini di Madonne e Santi a cui si è specialmente devoti, il tutto in una radicata e pacifica convivenza tra elementi sacri e profani. Molti e difformi, ma mai casuali nella scelta dovuta alla loro pregnanza simbolica, sono gli oggetti apotropaici utilizzati nella tradizione marinara italiana: riscontriamo cipolle, corna di bue, ferri di cavallo, zampe di coniglio, coltelli, chiodi, grossi ami, murici preferiti per le molte punte della conchiglia, sacchettini ripieni di sale medagliette dorate con le effigi di divinità, altrimenti poste in cornice, rosari e molti altri oggetti ancora.
L'usanza di collocarli sulla barca, seppur maggiormente sentita un tempo, non è andata persa. Il loro scopo è quello di allontanare il malocchio o la malasorte e, sempre in vista del medesimo scopo, in passato si usava sistemarli non solamente sulle imbarcazioni, ma pure nei cantieri navali dove esse venivano costruite. Nel cantiere dei fratelli Provvidenti a Milazzo, ad esempio, è stato trovato un altarino con alcune immagini di Santi posti in alternanza tra una cipolla, corna di bue, ferri di cavallo e sacchettini di sale. Similmente, in Turchia, a Fethiye, è onnipresente l’occhio, realizzato in pasta di vetro e affisso sia nei locali dei cantieri prospicienti l’area portuale sia sui caicchi impostati sugli scali e appesi all’estremità superiore dei dritti di prora di tali belle imbarcazioni tradizionali. L’occhio che “guata” il mare, che mentre la barca incede ne scruta superficie e profondità, che, vista da sotto, assimila la carena con la sua coppia di occhi di cubia a un pesce, è forse una delle più diffuse icone del presente e di un lungo passato, condivise dalle più disparate marinerie, non soltanto di casa nostra e del solo Mediterraneo.

Come si intuisce la prua è più spesso chiamata in causa nelle procedure difensive perché è proprio a essa che tocca il compito, «rischioso», di incidere e quindi profanare la superficie marina, è essa che per prima deve fronteggiare i marosi. Esisteva nel passato e ancora nella prima metà del Novecento l'usanza di porre una pelliccia di animale, il «pelliccione», in funzione apotropaica, sui trabaccoli dell'Adriatico. Serviva per allontanare la malasorte e richiamava l'antica usanza di legare attorno alla parte sommitale della prua, al momento del varo, il vello di un animale sacrificato. Evidente il richiamo al vello d’oro che Giasone, a capo dei suoi valorosi argonauti, espose nel medesimo punto della sua imbarcazione a remi e vela. Anche nel Tirreno qualche gozzo presenta una tavoletta ovoidale fissata sulla prua, talora dipinta di rosso, riconducibile sia a Giasone sia al fallo. Palle di stracci colorati, pelli, dischetti di legno sono parimenti evidenti in dipinti settecenteschi e ottocenteschi che raffiguravano affollate teorie di imbarcazioni all’ormeggio nei porti borbonici. Anche le murate delle barche da pesca venivano e vengono decorate di pitture protettive. All’Argentario due nuovi gozzi per la pesca del tramaglio ostentano sui masconi prodieri il santo a cui l’equipaggio è devoto, dipinto con attenzione ai particolari e circondato da una cornice. Le impavesate erano altre superfici spesso dipinte con corni, sirene dalle lunghissime code intrecciate e immagini di santi come notato in alcuni gozzi messinesi. Dipingere inoltre un cavalluccio marino sui lati dell'imbarcazione è una pratica riconducibile ai poteri magici che la tradizione attribuisce a questo animale, potente amuleto contro i malefici. Non sfuggono al pennello di chi vuole portare con sé in navigazione le figure protettive predilette anche altre zone dell’imbarcazione. Ci è capitato di osservare un peschereccio per la pesca del tonno con reti di circuizione di stanza in Liguria, a Savona, che ostentava, è il caso di dirlo, un grosso ovale ligneo con l’effige di una Madonna, fissato esternamente alla plancia, sopra di essa.
Il colore e i simboli impiegati per proteggere e al contempo abbellire lo scafo si ricollegavano quindi a tradizioni propiziatorie di grande valore simbolico e mentre a prua si raffiguravano in prevalenza immagini volte a difendere lo scafo dalle insidie della navigazione, a poppa trovavano posto rappresentazioni augurali per una buona pesca.

Non possiamo inoltre non menzionare le policrome polene, statue decorative poste a prua in modo particolare delle navi a vela, molto diffuse tra Settecento e inizi del Novecento. L’esibizione di figure lignee a prora ha dei precedenti comunque più antichi, presso vichinghi, greci e romani. Ostentare una polena rimandava al prestigio e all’importanza dell’armatore o del comandante che, dunque, poteva permettersi il lusso di esibire cotali policrome statue spesso ricche di dettagli. La polena assolveva però anche a funzioni apotropaiche. Il veliero di Guglielmo il Conquistatore aveva una prua con una testa di leone. La danese Sweyn Forkbeard ne possedeva una a forma di dragone. La prima polena della storia britannica pare fosse quella della Trinity Royal del 1416 , che portava il leopardo inglese reale. Nel XVI secolo quelle scozzesi erano collegate sovente al nome della nave. La nave Unicorn, ad esempio, possedeva una polena a forma di tale fantastico animale. La barca francese Roi Soleil , sempre a prua, mostrava una sirena. A Calcutta la Java, varata nel 1813, era arricchita da una polena che raffigurava una donna con mani congiunte in preghiera mentre, assolutamente meno «casta» appariva la polena del Cutty Sark rappresentante una donna formosa a petto nudo, non la prima e neppure l’ultima polena, vuoi in veste femminile, vuoi in guisa di sirena, caratterizzata dall’ostentazione di procaci seni nudi, in qualche modo seducente «consolazione» per equipaggi soltanto maschili lontani dai loro affetti e dalle loro donne anche per mesi [Moro 2019].

Una pratica molto sentita, oggi come in passato, è quella della benedizione dell’imbarcazione. Il marinaio, prima di affidare la propria vita all' imbarcazione usa battezzarla, al momento del varo, cioè quando la barca tocca l'acqua per la prima volta. In passato si usava sacrificare un animale, tagliargli la gola cospargendo la chiglia del suo sangue quale atto propiziatorio. Oggi, invece, si usa rompere o stappare una bottiglia di spumante sulla prora, atto accompagnato spesso dalla benedizione del prete. Periodiche ristrutturazioni del natante consigliano di reiterare la benedizione.

Anche l’imposizione del nome a un nuovo legno registra istanze di natura magico-religiose. Diffusissima è l’usanza ben radicata tra la gente di mare di attribuire al natante il nome o i nomi di un santo, ad esempio Pietro e Paolo assieme. In ciò si avocava e si evocava la loro protezione. Alcuni pescatori dell'arcipelago eoliano ci raccontano che era abitudine conferire il nome della propria moglie alla barca anteponendo l'appellativo del Santo.

Nell'inseparabile sovrapposizione tra dimensione equorea e dimensione sovrannaturale, essa investiva gli stessi sistemi di pesca. Durante la pesca dei tonni era frequente intonare canzoni in coro nel momento in cui veniva issata la camera della morte, non solamente per sincronizzare i movimenti dei partecipanti, ma anche, chiaramente, per propiziarsi la divinità. Nella Iamola ad esempio, uno dei canti di tonnara più famosi di tutta la Sicilia, ci sono degli espliciti riferimenti a Dio, alla santissima trinità e ad alcuni Santi.

Ai tempi in cui la tonnara di Milazzo era in funzione, ad esempio, si usava immergere energicamente per tre volte una statuetta di Sant' Antonio da Padova nell'acqua, subito dopo il calo delle reti, per propiziare la pesca del tonno. "Ah 'ntall'acqua ti dubbamu" si usava dire quando i tonni non volevo entrare nelle reti. Ulteriori testimonianze, di ben diverso tenore, riportano che era abitudine, ancora intorno agli anni Settanta del Novecento, nei casi in cui l’imbarcazione andava incontro a infortuni ripetuti, o la pesca era assai magra, far salire a bordo una prostituta invitandola a urinare al centro della barca per togliere tutte le fatture e i malocchi che vi si erano annidati. Sappiamo che ricorrevano a questa procedura i rais a capo di quelle tonnare siciliane che non catturavano pesce a sufficienza [Quilici 1976. 13].


Riti di passaggio per farsi uomo di mare

Altrettante pratiche diffuse presso le popolazioni alieutiche e marinare delle epoche più diverse e alle più distanti latitudini sono quelle che investono la persona fisica, promuovendone e sancendone lo statuto di uomo di mare, di soggetto che deve dimostrare alla comunità di appartenenza di avere i numeri per navigare e pescare.

I rituali di iniziazione legati alla sfera marina arrivano a coinvolgere tutte quelle figure che da sempre vivono in un rapporto inseparabile e simbiotico con il mare. In Papua Nuova Guinea ad esempio un rituale di iniziazione prevede che i giovani destinati ad assumere lo status di adulti vengano lanciati tra le fauci di un grosso squalo feticcio [Quilici 1976, 186,188].

In tutt’altri ambiti la celebre Line Crossing Ceremony prevede che il giovane passi dalla condizione di novizio a quella di marinaio a tutti gli effetti nel momento i cui si trova per la prima volta ad attraversare la linea dell’equatore sulla nave su cui è imbarcato. Il novizio, chiamato pollywogs, usa quindi render grazie a Nettuno, dio dei mari, divenendone un suo legittimo figlio, uno shellback. Questa tradizione, presente presso molteplici marinerie, viene praticata ancora oggi e talvolta utilizzata in ambito croceristico come intrattenimento per i passeggeri. La cerimonia, fortemente teatralizzata, inizia il giorno prima dell’attraversamento dell’equatore e può durare l'intera notte: il novizio è sottoposto a domande, prove fisiche e nel momento cruciale, se si ritiene che abbia superato la prova, viene ammesso alla «corte di Nettuno» per mutare infine la propria condizione, per rendere palese senza ombra di dubbi la sua vocazione marinara.


Festeggiare e sposarsi il mare

Tra le modalità con cui la gente usa propiziarsi il mare troviamo inoltre un significativo e multiforme apparato festivo. Molte cerimonie evocano lo sposalizio del mare. Sono sovente associate a una processione che percorso il paese procede e continua in mare. Un peschereccio, comunque un natante tra i migliori del luogo e tirato a lucido, con a bordo autorità religiose e civili, assieme a esponenti delle congreghe locali, prende il largo seguito da una teoria cospicua di ulteriori imbarcazioni. Sulla barca madre è stata fatta salire l’effige del santo o della madonna venerata in quei luoghi che presenzierà e sacralizzerà il rito. Segue quindi il lancio in mare di una corona floreale aspersa e benedetta o pure di un anello. Se la corona è spesso in memoria dei defunti in mare, la sua medesima forma circolare viene pure intesa come una vera imposta alla dimensione equorea. Stabilisce un legame forte tra uomo e mare, un sacro vincolo che nessuno dovrà profanare. La medesima rotta seguita dalle barche in processione definisce un cerchio, circoscrive una porzione circolare di acqua salsa, sancisce i perimetri in cui nulla di male dovrà mai accadere.

Ben nota è la cerimonia dello sposalizio con il mare a Venezia, durante la festa della Sensa, nel giorno dell'Ascensione. In passato, in quella ricorrenza il doge lasciava cadere un anello consacrato in acqua in funzione di ribadita riconciliazione con esso. A Milazzo troviamo il rituale della Berrettella nel corso del quale si usa gettare in mare una ghirlanda di fiori, simbolo che richiama il berretto di San Francesco, accompagnato dalla recita di alcune preghiere marinare. Il gesto del gettare in mare la ghirlanda evoca il culto della reliquia come pure la riunione con il santo e con il mare stesso. Nella penisola sorrentina tra primavera ed estate si susseguono le processioni a mare dei paesi che si affacciano su quel litorale. Protagonista è ancora la ghirlanda e la statua del santo a bordo. Cosa del tutto simile accade a Porto Santo Stefano. L’elenco di similari processioni con varianti locali è molto lungo, e citarne ancora, inevitabilmente una a discapito di un’altra, avrebbe poco senso. Ci preme invece sottolineare gli intenti di tali manifestazioni e, in modo particolare, il tentativo di far sì che tra divinità coinvolta nel rito e dimensione marina si stabilisca, e ogni anno si riconsacri, un rapporto empatico, tattile, fisico, di assoluta prossimità, officiato dall’uomo che quel patto porrà al riparo da sciagure. Sottesa ma presente è perciò la finalità ultima di codeste feste, quella di implicare la divinità direttamente nel mare. La madonnina, il santo, attraverso il loro tramite, la statua, il dipinto, debbono sapere cosa significhi fare un mestiere di mare, quali gravi rischi comporti, rischi di cui anche la divinità deve essere dunque avvertita e cosciente. In casi di colpi di mare che sorprendevano in mare le barche da pesca di questa o quella località mettendo a repentaglio la vita degli equipaggi, donne, giovani e anziani da terra non rimanevano con le mani in mano: subito si officiava una messa, si pregava con ardore ma se tutto questo non placava i marosi si agguantava la statua del santo riottoso e la si scagliava in acqua, tra i flutti, perché potesse direttamente rendersi conto della criticità della situazione. Cronache locali ci raccontano di tali episodi, limitatamente alle nostre conoscenze, dalla Toscana alla Campania, alla Sicilia.

Non solo la penisola italiana abbonda di festività legate agli innumerevoli santi, ma in tutto il mondo si può assistere ad eventi simili. Navigatori portoghesi del XVI secolo portavano sulle loro barche la statua del santo a cui erano devoti, assicurata all'albero maestro. Se però cadeva il vento e le vele pendevano inerti allora i marinai prendevano a frustate l’icona minacciando di gettarla in mare e con essa di disfarsi della divinità poco «collaborativa». Tornato il vento, assieme a esso si tornava serenamente a venerare il santo.

A Salvador, in Brasile, si festeggia la Festa di Yamanja, dea del mare, rappresentata oggi dalla statua della Madonna, festeggiata con fiori donati al mare, canti e preghiere. La sua statua, al finire della cerimonia, viene abbandonata sulle onde dell'oceano perché abbia «contezza» della sua pericolosità e perché in tal modo la sacralità che dalla figura promana meglio si irreli e si propaghi, per contatto diretto, alla dimensione equorea. Esperienza simile tocca, se così si può dire, a Santa Sara la Nera festeggiata dai popoli gitani presso Saintes-Maries-de-la-Mer. La statua viene condotta in processione fin sul mare e qui immersa per tre volte in acqua in un rito di purificazione ove il mare mentre accoglie la santa imbibendosi della sua sacralità, deve «stare al gioco» obbligandosi a un ruolo mondante e salvifico.

Evidente ci pare come alla instabile liquidità del mare la gente che vi vive e pesca, che lo naviga articoli risposte altrettanto liquide e plastiche cercando di mettere in campo strategie di accerchiamento e controllo della dimensione equorea che miscelano assieme elementi tra i più diversi, pratici ed empirici, magici e religiosi.