Foto di famiglia

A cura di Alberto Baldi

Lo strumento, forse per eccellenza, deputato a veicolare un’immagine di noi definita e controllata, a comporre, specificare ed esplicitare la rappresentazione della nostra persona che vogliamo trasmettere agli altri è il ritratto, prima pittorico e quindi fotografico.
Qui ci occupiamo della fotografia che già intorno alla metà dell’Ottocento fece letteralmente esplodere la ritrattistica, genere non più circoscritto ad aristocrazia e ricca borghesia ma, poco per volta, con il diffondersi di strumenti di ripresa, di sviluppo e stampa via via maggiormente abbordabili, a ogni strato sociale.
Chi, frequentemente provenendo dalla pittura, si riconvertì alla foto, lo fece a ragion veduta, fiutando l’affare, consapevole che un ritratto daguerrotipico, calotipico, al collodio, prevedeva tempi di realizzazione e costi infinitamente più contenuti rispetto a chi continuava nell’uso di tavolozza e pennello. Negli studi bastò togliere il cavalletto che sorreggeva la tela, al suo posto collocando un banco ottico o più semplici e maneggevoli fotocamere in legno e a soffietto. Tutto il resto, inizialmente rimase inalterato, ovvero fondali pittorici ritraenti boschi, mari e monti, interni di abitazioni patrizie, assieme a un variegato corredo di elementi utili per impreziosire la scena, poltroncine, colonne, balaustre, piante, statuette, vasi con fiori, tappeti, specchi, tendaggi. Il ritratto fotografico degli inizi, ma pure reiterato nel tempo, in tal modo ancora così praticato fino agli anni Cinquanta, Sessanta del Novecento, faceva dunque il verso a quello pittorico per “nobilitarsi”.
La «scena del fotografo», secondo una felice espressione di Lello Mazzacane [Mazzacane, Cresci 1983. 118-119], ha continuato assai a lungo a essere «ingombra» del citato armamentario sia nell’atelier cittadino come nei piccoli studi di provincia. Qui il cliente, consigliato dal fotografo, aveva agio di scegliere quanto necessario per costruire l’immagine di sé desiderata. L’auspicio era quello di far bella figura nei confronti di tutti coloro ai quali l’immagine sarebbe stata mostrata, in diversi casi deliberatamente inviata, spedita assieme a una lettera. Il ritratto fotografico non è infatti concepito, nella maggior parte dei casi, per stare chiuso in un cassetto, ma per viaggiare ed essere esposto, osservato, soppesato, valutato, apprezzato o meno, peraltro ieri come oggi in epoca di social.
La foto di famiglia riflette quindi l’universale attitudine a mettersi in posa nella misura in cui tale posa disveli ciò che il soggetto ha intensione, per suo tramite, di rendere esplicito. Dinnanzi all’obiettivo della macchina fotografica non si pongono sic et simpliciter dei soggetti ma, a ben vedere, modelli e valori in cui essi si riconoscono e che chiedono alla foto di ribadire. Modelli e valori della propria cultura di appartenenza o di strati sociali a cui si anela, di istituti sociali che informano le relazioni sociali e con esse le aspettative di ruolo. La foto di un gruppo familiare, se l’uomo compare al centro, se davanti a sé o tra le sue gambe pone il figlio maschio diviene evidentemente l’esplicitazione ribadita dalla postura, dagli sguardi, dagli spazi occupati nell’inquadratura, non tanto e non solo di un consesso di familiari con nome e cognome, di questo o quel paese, di questo o quell’anno, ma di una famiglia di tipo patriarcale. In virtù della frequente polisemicità della fotografia, il ritratto di famiglia di cui stiamo dicendo, ribadirà anche altri aspetti. L’ostentazione dell’abito buono dell’uomo, con panciotto e catenina collegata alla cipolla, del giornale in mano, del collo di volpe sul cappotto della consorte, delle scarpe tirate a lucido e di unghie e dita delle mani nette e pulite ascriverà il gruppo in un contesto borghese, in qualche modo agiato o presunto tale. In questa prospettiva il ritratto fotografico ubbidisce a due esigenze, quella di ribadire uno status quo e quella di dissimulare l’appartenenza a consessi a cui soltanto si può anelare. Le occasioni per giocare su codesti due tavoli si moltiplicano.
Nel tempo la foto di famiglia determina specifici generi, pur con le molte varianti sul tema, che innanzitutto stigmatizzano i riti di passaggio, dalla nascita alla morte, dalla prima comunione, al matrimonio, alle nozze d’argento e d’oro. Ancora una volta con la foto in occasione del battesimo e delle nozze non si dichiara alla comunità di appartenenza la sola propria adesione a un istituto religioso, a un sacramento, ma a un modo di celebrarlo decorosamente, meglio se riccamente, con enfasi e pompa come amano fare per primi coloro che attraversano l’oceano per andare a cercare fortuna in America. L’emigrante che spedisce ai parenti rimasti al paese le foto del millantato o reale successo del progetto migratorio desidera che i suoi ritratti celebrino in primis il benessere raggiunto ma probabilmente anche un’emancipazione culturale e sociale che definisce uno spartiacque con la comunità di origine. La figlia vestita alla moda, con abiti chiari, con una rosa sul petto, con una camicetta appena un po’ sbottonata, con una capigliatura mossa, con in mano una pochette o il diploma scolastico, al volante di un auto, soprattutto con un sorriso esplicito sulle labbra, prende decisamente le distanze dalle coetanee rimaste confinate in uno dei molti paesi del nostro sud, avvolte in poveri abiti scuri, con la «tuvaglia» in testa che vignetta pudicamente i loro volti.





Da questo punto di vista il ritratto fotografico di famiglia costituisce un formidabile affaccio su un contesto sociale dato e sulle sue fondamenta culturali. L’antropologia visuale, accanto ai classici strumenti di indagine, dall’intervista alla storia di vita, fa o farebbe bene a basare le proprie indagini anche sulle rappresentazioni che di sé i contesti studiati hanno nel tempo articolato e caratterizzato. Per far questo è opportuno che il ricercatore metta a punto una serie di strumenti euristici specificamente elaborati per lavorare alla decrittazione di codeste immagini, spesso frutto di una complessa stratificazione di significati: si tratta di significati da leggere separatamente e al contempo in cogente relazione tra loro [Baldi 2003, 2004].
In questa prospettiva va ovviamente considerato pure il rapporto diadico tra soggetto fotografante e fotografato. Sia nel passato quando il fotografo, con il suo studio e la sua sala di posa, rappresentava l’unica via per ottenere un ritratto, sia dal momento in cui ad esso subentra il dilettante, dal momento in cui la gente comincia a fotografare sé stessa senza l’intermediazione del professionista, comunque sia, siamo al cospetto di due modalità rappresentative che si fondono nel momento dello scatto. Ricordiamo che non è solo chi desidera farsi ritrarre ad avere delle aspettative sul risultato di un’operazione da cui uscire con una foto rispondente all’immagine di sé, ma è pure chi si pone dietro l’obiettivo a caricare il ritratto di ciò che egli reputa maggiormente congruo a «interpretare» le aspettazioni di colui o coloro che deve o vuole immortalare.
L’avvento della Kodak che il suo ideatore, George Eastman, nel 1888, concepì come apparecchio versatile e relativamente poco costoso, tecnicamente alla portata di tutti, pubblicizzato dal celeberrimo motto «voi premete il bottone, noi facciamo tutto il resto» si basava sul presupposto di proporre a una clientela potenzialmente illimitata di neofiti fotoamatori una macchina fotografica di tale facilissimo e intuitivo impiego da richiedere solo lo «sforzo» di scattare. Sarebbero poi stati i laboratori Kodak a prendere in consegna dai clienti i loro apparecchi con la pellicola impressionata, aprirli, caricarli di nuovo riconsegnando parimenti i film sviluppati e le foto stampate.
Codesta rivoluzione che, pur se con mezzi di ripresa ben più raffinati, prosegue ancora attualmente, ribadisce i generi tradizionalmente appannaggio dei fotografi professionisti che però sono parallelamente interpretati dagli stessi soggetti, da loro familiari e amici. Un esempio su tutti: a un odierno matrimonio vediamo in azione l’immancabile fotografo di professione ma al contempo uno stuolo di cellulari, di compatte e di bridge con cui i convenuti alla cerimonia e al successivo banchetto «dicono la loro» sull’evento. Seguono i selfie che gli sposi medesimi non mancano di farsi. La foto amatoriale contribuisce in tal senso a reinterpretare e dilatare i generi canonici ma anche di nuovi ne introduce. Astutamente ancora Eastman metteva in evidenza con le sue martellanti campagne pubblicitarie quali foto divenivano possibili usando la sua Kodak, tutte quelle finalmente fuori dai ristretti e codificati ambiti dello studio.
L’industriale americano si fa ritrarre in crociera, sul ponte di passeggiata di un transatlantico, nell’atto di fotografare chi lo sta parimenti riprendendo. La foto amatoriale inizia a declinare gli infiniti modi di immortalare il tempo festivo, il tempo libero, la vacanza, la quotidianità, in casa, per strada, sulla spiaggia, in un giardino pubblico, in una escursione, in un parco di divertimenti, in estate e in inverno, durante le ferie agostane e in quelle di Natale.
Nasce poi una macchina fotografica ancora più versatile perché più piccola, praticamente tascabile e leggera: è la Leica che debutta nel 1925 Sarà l’apparecchio che andrà a braccetto con il fotogiornalismo, strumento professionale pure a disposizione di dilettanti evoluti. Nel secondo dopoguerra il nascente colosso giapponese Nikon, utilizzando la medesima pellicola 35 mm impiegata dalla Leica proporrà la reflex ovvero una macchina fotografica che consentirà a chi scatta di superare i limiti del mirino disassato rispetto alla lente, inquadrando ciò che esattamente andrà a imprimersi sulla pellicola. Il photoreportage professionistico continuerà dunque ad avvalersi dei molti perfezionamenti proposti dall’industria fotografica la quale, però, non si dimentica del ben più redditizio bacino dei fotodilettanti. Bisognava introdurre novità in grado di stuzzicarli, senza svuotarne le tasche ma soprattutto continuando a sposare la filosofia di apparecchi dall’uso assolutamente semplificato, del tutto elementare. Ecco allora la Polaroid che affranca chi la usa dal fastidio di doversi comunque recare dal fotografo per sviluppare e stampare le foto: fa tutto lei proponendo nel corso degli anni immagini in bianco e nero e quindi anche a colori. Si perde però l’opportunità del negativo: ogni scatto eseguito con questo apparecchio comunque rivoluzionario consegna solo il positivo, un unicum non replicabile. A chi non vuole rinunciare alla possibilità di ottenere più copie da un medesimo negativo va incontro ancora una volta la Kodak e non soltanto essa, con l’Instamatic. Si diffondono apparecchi dotati di un caricatore sigillato e di un flash per inusitati notturni. Sarà il laboratorio ad aprire il caricatore, estrarne la pellicola, svilupparla e stamparla.
Polaroid e Instmatic, assieme al vasto parterre di consorelle, generò, come oggi parimenti genera la foto digitale, un numero infinito di scatti che spesso, nell’ambito dell’Antropologia visuale, non ha goduto del medesimo interesse attribuito alla foto di famiglia quando ancora declinata dal fotografo con quei manierismi estetici ricchi di implicazioni simboliche e allusive che consentivano feconde immersioni analitiche in codesti stereotipati e sfaccettati documenti visivi. Le polaroid appaiono bruttine, i menischi di cui è dotata l’Instamatic non sono certo il massimo in termini di nitidezza, le composizioni sono tirate via, sciatte, ridondanti, mosse, con teste a volte involontariamente «decapitate», con orizzonti incerti e inclinati. I formati di stampa, contenuti per via dei limiti appena citati, non possono rivaleggiare con i formati 35mm, 6X6, 4.5X6, 9X12 ancora adottati dai fotografi professionisti. Il complessivo scarso appeal alla fin fine soprattutto estetico di cotali scatti non deve però far dimenticare la loro pregnanza antropologica, nel preciso momento in cui il ritratto fotografico slitta dalla rappresentazione architettata dal fotografo di mestiere alla ben più complessa, estesa, multiforme autorappresentazione del soggetto, ora nella sua parallela veste di «ritrattista».
A partire dagli ultimi trenta anni del Novecento, dilagando tumultuosa nei successivi primi due decenni del Duemila, è la foto digitale e soprattutto il suo impiego sempre più «performativo» capace non solo di realizzare foto in ottima risoluzione ma pure fornendo apposite applicazioni per apportare modifiche alle inquadrature e alle tonalità cromatiche, per inserire elementi grafici e testi, per impaginarle e scompaginarle. Di tutto questo si impossessano gli odierni cellulari, veri concentrati di tecnologia, per foto che decretano la morte della stampa cartacea e la loro sopravvivenza on line. Le foto digitali rimbalzano in tempo reale da un telefono all’altro, vengono postate sui social, reiterate e cancellate, evocate e dimenticate nelle memorie senza fondo delle apparecchiature che le hanno generate.
Intriganti e molteplici i riverberi in termini di generi che, potremmo dire, rimangano i medesimi di sempre, ma realizzati, composti, declinati e interpretati secondo infinite e differenti contemporanee modalità. Qualche riga più sopra abbiamo evocato il concetto di performance: ebbene uno dei comuni denominatori ci pare essere quello, appunto, prestazionale legato a una forte esigenza di apparire in ossequio a canoni estetici per così dire molto marcati, oltremodo evidenti. È proprio la foto digitale a segnalarci, per esempio, come il ritratto di una volta che comunque si imperniava sul volto del soggetto, curandone prima dello scatto l’espressione, l’inclinazione del capo, la pettinatura dei capelli, l’incidenza della luce, perda alle volte significativo terreno. In contesti dominati dalla necessità di un apparire ben più «esplosivo», fisico, epidermico, letteralmente muscolare si può pure evitare di insistere sul volto concentrandosi su bicipiti ben scolpiti e altrettanto ben delineate «tartarughe» addominali. Nascono e si diffondono in tal modo ritratti «decollati» che glissano, che fanno letteralmente a meno dei volti, insistendo sul pettorale «pompato», sul seno turgido, sull’abbronzatura ineccepibile. L’obiettivo di fondo è a ogni buon conto il medesimo di sempre: sancire mediante il ritratto un’appartenenza approvata, la condivisione di un’esistenza definita o agognata, un «esserci» attentamente e vistosamente definito.
Il MAM ha in decenni di ricerche organizzato un archivio di foto familiari di circa cinquemila immagini, che dagli anni Sessanta dell’Ottocento giunge fino ad oggi, con riferimento prevalente all’Italia meridionale e ai contesti migratori. Molta attenzione viene data all’individuazione e allo studio dei generi, a come essi siano andati mutando nel tempo. Si sta inoltre procedendo ad effettuare una serie di «carotazioni» nel mare magnum della ritrattistica digitale realizzata mediante telefoni cellulari, studiandone la collocazione sui profili social, l’associazione ad ulteriori immagini e testi. Altrettante carotazioni vengono effettuate all’estero, in Francia, Spagna, Germania, Inghilterra, Marocco, etc. In parallelo esiste una sezione dell’archivio riservato agli autori, a fotografi professionisti e a dilettanti evoluti di cui si è recuperata la storia, la vicenda lavorativa, il modus operandi, i generi praticati. Si tratta di figure che hanno esercitato dagli inizi del Novecento a oggi soprattutto in area campana e lucana e, in misura minore, in Puglia e Abruzzo [Mazzacane 1983, Baldi 2003, 2010, Verrastro 2010, Zito 2010].


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