Mare
Improprie e improvvide attitudini del turismo balneare di ieri e di oggi, rumoreggianti, invasive e superficiali
Antichi e riservati paesi rivieraschi di pescatori, tratti di costa in buona parte deserti subiscono, fin dalla seconda metà del Settecento, la progressiva irruzione di un villeggiante che esige di reiterare sulle spiagge i riti sociali e mondani dei contesti urbani di provenienza. Giganteggianti hotel di lusso, caffè, lungomari, rotonde, pontili che si protendono per centinaia di metri in acqua cambiano per sempre i connotati alle rive mentre il mare resta sostanzialmente ignorato, mero fondale per una serie di pratiche che gli voltano le spalle: impera lo struscio secondo i dettami di un défilé di moda, si passeggia ma pure si pattina sul lungomare, si ozia in alberghi inizialmente a debita distanza dalle rive e poi a esse sempre più prossimi, ci si cura in stabilimenti termali inalando il salmastro, facendosi aspergere di alghe o seppellire nella sabbia, ci si «immerge» nei primi acquari pubblici e alla fine si «affronta» direttamente l’onda marina utilizzando cabine su palafitte o rese semoventi dalla presenza di ruote di carro, nonché tenendosi aggrappati a delle cime assicurate alla battigia per non essere rapiti dalla risacca.
Da questo prudente, tremebondo, guardingo e soprattutto terragnolo primo contatto con l’acqua salsa si svilupperanno approcci via via sempre più baldanzosi, dominati da performance agonistiche di assai variegato genere ove la superficie marina sarà in qualche modo un’inusitata ma pure impropria e pericolosa piattaforma di lancio non più per navigare ma per planare e oggigiorno, letteralmente, per decollare e involarsi con tutti i rischi conseguenti, anche mortali.
Dalle regate, fin dall’epoca in cui, a partire dal 1851, yacht enormemente invelati davano vita alla Coppa America, antesignana dell’odierna e multiforme competizione velica, l’obiettivo sarà quello della velocità che non necessariamente farà rima con acquaticità, con doti marine eluse da scafi pensati paradossalmente per «prescindere» dal «sottostante» mare.
La contemporaneità ci presenta quindi un quadro mutato, contraddistinto per un verso da una frequentazione del mare assolutamente di massa e per l’altro da un paradosso che così potremmo definire: tutti al mare intrattenendo con esso una relazione fugace, concitata, rapida, velocistica, e soprattutto «performativa». Nasce l’epoca dei gommoni, delle piccole derive, di catamarani la cui velocità intrinseca viene recentemente esacerbata dal ricorso a foil che garantiscono fulminee e pericolose planate; si afferma la moda di gozzi, un tempo dalla carena stellata e ora planante, degli scooter d’acqua, dei surf, dei kitesurf, addirittura di auto galleggianti in grado di trasferire la loro propulsione dalle ruote a eliche e oggi a idrogetti. Siamo al cospetto di un funambolico caravanserraglio che pare continuamente alla ricerca di modi sempre più esasperati e vistosi di navigare il mare senza solcarlo, come si diceva poc’anzi, volandoci sopra.
Se molte odierne attività sportive connesse alla dimensione equorea sembrano volerne appena lambire fatuamente la superficie, esiste però anche un «sotto», ovvero una profondità marina presa d’assalto dagli anni Sessanta del Novecento da una pesca subacquea resa possibile da maschera, pinne e fucili a molla, a elastico, ad aria compressa, con fiocine, arpioni e finanche cariche esplosive per mattanze incondizionate. Riviste specializzate rappresentano e enfatizzano tali carneficine, con fotoreportage a colori di tali crudeli safari marini, con l’esibizione di squali e mante appesi a testa in giù sulle banchine, al ritorno dalle battute. Oggi imperano diving e snorkeling, pratiche più pacifiche ma egualmente invasive, incursioni subacquee dove il fucile è sostituito da macchine fotografiche e camcorder subacquee, attività, queste ultime, che aggiungono ulteriore «frastuono» a un mondo marino che continua a essere frequentemente impiegato quale sfondo per pratiche a esso del tutto aliene.
Le modalità figurative di immagini, prima incisioni e poi foto, che declinano la relazione dell’uomo con l’acqua salsa, vedono l’assoluto protagonismo del primo ai danni del secondo, quest’ultimo mero elemento di sfondo e cornice da cui «emerge» anziché «immergersi» un bagnante, un atleta, finanche un sub intento a rubare la scena al mare assieme e grazie a un vario corredo di «utensili» con cui piegare la dimensione equorea alle sue estrose, astruse e intrusive performance.