1) Ritratto familiare daguerrotipico che evidenzia come già negli anni Quaranta dell’Ottocento, con la commercializzazione del primo sistema di riproduzione fotografica studiato da Niepce e affinato e commercializzato da Daguerre, pur con iniziali e grossi limiti imposti dai lunghi tempi di posa e da emulsioni poco sensibili, il ritratto familiare, appena possibile, fa capolino, tra più frequenti foto di paesaggi e nature morte. Attraverso la rigida, conchiusa e inespressiva compostezza dei soggetti, essi si dichiarano all’obiettivo «seriosamente» come la sacralità dell’istituto familiare richiede e impone. A parlare non sono solo le persone riprese ma anche la cornice interamente dorata che ornando il ritratto, conferisce a esso ulteriore preziosità, la preziosità di un legame familiare che sul piano formale, del manufatto in quanto tale, vorrebbe altresì evocare patenti parentele con il pregiato e costoso ritratto pittorico.
2) Ricordiamo come il ritratto daguerrotipico fosse un’immagine così detta «latente», ovvero positiva e negativa al contempo, apprezzabile solo attraverso un’esposizione calcolata alla luce, e dunque incapace di generare copie. Se certamente questo si configurava come un limite, era però al contempo elemento che associava la foto degli albori alla pittura. Avevano in comune il fatto di essere un apprezzato, pregiato unicum.
Da qui l’uso di ampollose cornici a foglia d’oro e di astucci in pelle e velluto con nottole e lucchetti anch’essi dorati, bruniti, in bronzo spazzolato, che custodendo e proteggendo codesti ritratti ne sottolineavano l’aura.
3) La cornice accompagna da sempre la fotografia, soprattutto quando chiamata a ribadire con le sue orlature e le sue modanature un ritratto, l’effige di persone la cui presenza l’immagine deve costantemente evocare in un ambiente domestico innanzitutto. Gli elementi che concorrono ad arricchire la foto a mezzo busto di questa ragazza tedesca ritratta negli anni Venti del Novecento, la pelliccia, il mazzetto di fiori, l’orlatura della camicetta con i suoi ricami, soprattutto l’orologio e la collanina di perle, si riverberano in una degna, opportuna e congruente cornice in cuoio e oro zecchino.
4) Le cornici possono assumere forme, decorazioni e colori anche assai differenti, come questa pressofusa, ma il fine è pur sempre quello di nobilitare il ritratto che ornano e cingono, di elevare al rango di piccola opera d’arte, come in pittura, la foto del soggetto che, dal canto suo e a sua volta, collabora al raggiungimento di questo scopo vestendosi in modo accurato, esibendo, come in questo caso, un corpetto ricco ed elaborato.
5) Il ritratto scandisce gli episodi salienti di un’esistenza intera, lascia traccia dei riti di passaggio di cui declina i molti momenti significativi. Episodi sereni e gioiosi si alternano ad altri più seri e gravi. Tutto viene registrato dalla macchina fotografica. Con il tempo il numero delle foto aumenta e nasce il problema della loro custodia. L’album sopperisce a questa esigenza che non è di solo contenimento fisico degli scatti ma occasione per ripresentare allo sguardo proprio e in futuro a quello dei posteri il nostro passaggio su questa terra attraverso gli episodi da ognuno di noi ritenuti importanti. L’album si fa strumento prezioso di rimemorazione che organa e storicizza un’esistenza. Divenendo dunque l’album di una vita, codesta sua importante natura, tale sua rilevante funzione, deve essere anticipata da contenitori le cui copertine siano chiamate ad alludere alla preziosità delle testimonianze fotografiche che custodiscono. Qui vediamo un album in tela con scritta in liberty.
6) Molti gli album in pelle lavorata e colorata, con sovraimpressioni floreali e stemmi medievaleggianti che più o meno surrettiziamente chiamano in causa un’araldica che dovrebbe ventilare blasonate origini e quarti di nobiltà dei soggetti delle foto che custodiscono, peraltro suggeriti pure dagli ampollosi decori dell’intera copertina.
7) Come per gli album di matrimonio che il fotografo professionista confeziona stabilendo con i clienti formati, materiali, rilegature e finanche numero di pagine e foto, esistono diverse altre occasioni da eternizzare, ad esempio una gita, una vacanza, un viaggio. Qui vediamo per l’appunto un album che secondo una consuetudine dei ritrattisti ufficiali che lavoravano a bordo dei transatlantici, narrava fasti ed escursioni compiuti nel corso di crociere sul Mediterraneo e sull’Atlantico. Si tratta di album per così dire «misti» perché in essi compaiono immagini generiche della nave e dei luoghi che è possibile visitare a ogni scalo, immagini che il fotografo ha già provveduto a realizzare e alle quali si aggiungono scatti eseguiti espressamente al cliente durante le escursioni a terra e gli eventi a bordo a cui ha deciso di partecipare. Qui vediamo una doppia pagina di un album con alcune fotografie standardizzate e stereotipate di Gerusalemme e dei suoi storici siti di culto.
8) Con le foto dei propri cari si può pure comporre un quadro più o meno articolato che riunisca anche altri parenti ed amici come in quello qui raffigurato, di provenienza inglese, risalente agli anni Trenta del Novecento. Chi lo ha realizzato ha avuto cura di dattiloscrivere un’etichetta con nome e cognome delle persone ritratte. Va in tal senso ricordato che spesso il quadretto e ancor più l’album rispondono a una complessa regia messa in atto dal suo possessore, da un idioletto, nel dettaglio da un ipotesto ma pure da un ipertesto, che lo conduce a creare personalissime associazioni tematiche sinergicamente sottolineate da didascalie, bigliettini, paginette vergate a mano che si intersecano e irrelano alle immagini. Siffatte trame non sono ovviamente mai casuali.
9) Nelle famiglie in cui agisca un fotoamatore, ove l’amore per i propri cari si sovrappone a quello per la fotografia, la produzione di immagini, massiccia, interstiziale, ridondante, ha bisogno di molteplici contenitori, come in questo caso di più album, sempre di gradevole aspetto, in tela floreale stampata, la cui generosa costolatura fa intuire le altrettanto cospicue capienze.
10) In tempi decisamente più recenti compaiono album con morsetti a scatto metallici che si infilano in buste di plastica trasparente nei prevalenti formati 13X18, 18X24, 24X30. Siamo qui al cospetto di uno dei molti album in cui un fotoamatore evoluto di origini toscane, tra gli anni Sessanta e Novanta del Novecento, inserisce le foto da lui scattate, sviluppate e stampate che esaltano quanto di meglio accaduto nell’arco di un anno in seno alla sua famiglia. La selezione non è assolutamente solo cronologica o tematica ma parimenti di natura compositiva, tonale e dunque anche estetica. Le due foto, l’una un particolare della torre di Pisa sullo sfondo di Piazza dei Miracoli composta in diagonale, l’altra un paesaggio maremmano, denotano l’intenzione del fotografo di non mettere sempre e comunque i propri familiari al centro delle sue foto, ritagliandosi uno spazio per fare dei luoghi visitati e ripresi occasione per autonome esercitazioni formali.
11) Se il fotodilettante, «evolvendosi», inizia a sviluppare e stampare in una camera oscura immancabilmente ricavata nel bagno di casa le proprie foto in bianco e nero, ben più raramente troverà facile e conveniente passare a positive e diapositive a colori che necessitano di procedure e attenzioni maggiori per il loro sviluppo. A questo sopperirà il laboratorio fotografico che fino alla nascita e alla diffusione della foto digitale, stamperà i rullini 35mm in 24 e 36 pose e intelaierà le dia a colori. Ai suoi clienti consegnerà scatoline con le diapositive e fotografie a colori debitamente inserite in album del formato corrispondente a quello scelto per la stampa delle immagini. Sulla copertina costituita da una busta trasparente, in alternativa a una immagine generica scelta dal laboratorio medesimo, verrà inserita una comoda provinatura dell’intera pellicola.
12) Passando il tempo, transitando le foto da una generazione all’altra e progressivamente e inesorabilmente sbiadendo o venendo ineluttabilmente meno la memoria di chi ai soggetti ripresi poteva ancora dare un nome, un’identità, subentra un oblio prima parziale e poi totale. Capita inoltre che si riusino i vecchi album svuotandoli delle foto illo tempore in essi amorevolmente collocate per fare spazio a scatti più recenti, contemporanei. Arriva così il momento della scatola di scarpe, di un vecchio scatolone in cui ammassare alla rinfusa le foto di un tempo che fu. Su di esse si può tentare una lettura soltanto di tipo connotativo perché a livello di mera denotazione, non sono più associabili nomi a volti e luoghi ripresi, neppure potendo risalire a specifiche occasioni che determinarono la scelta di fare questa o quella foto. Ciò nonostante anche se molti di questi ritratti non parlano più, il loro destino è ancora in casa, benché in un anonimo contenitore. Non si arriva a disfarcene riconoscendo a codesta moltitudine di silenti sguardi un sostrato comune non alienabile, riverbero di una ascendenza familiare, quella da cui si proviene, ancora alimentata da una evidenza visiva più forte di ogni parola, di un silenzio iconico che comunque cinge d’assedio cotali antichi ritratti.
13) Se alle cornici spetta quindi il compito di ingraziosire e rendere importante un ritratto fotografico, esiste poi, tutt’altro che secondaria, la scelta della collocazione dell’immagine, la relazione tra foto e spazi domestici. Tale scelta è sovente ponderata. Diffuso, soprattutto nell’Italia meridionale, è il così detto altarino domestico in cui, secondo giustapposizioni ragionate, i ritratti dei propri cari, soprattutto se di familiari defunti che assurgono al rango di numi tutelari, coabitano con le effigi dei santi, siano esse stampe popolari o statue. A tali divinità alle quali si è con evidenza particolarmente devoti si interpongono i ritratti degli avi, secondo sinergie specifiche chiaramente finalizzate alla creazione di catene iconiche di presupposta, grande efficacia apotropaica. Codesti ritratti sono destinati ineluttabilmente, con il trascorrere degli anni, a impinguarsi delle immagini di ulteriori trapassati: tali foto sono sovrapposte talvolta a precedenti quadretti infilandone i bordi tra cornice e vetro. Il primigenio ritratto incorniciato è dunque votato ad accogliere e riunire poco per volta i componenti di una medesima famiglia passati a miglior vita. A rischiarare la scena concorrono dei lumini elettrici perennemente accesi perché debbono alludere alla fiamma eterna di un vincolo che la morte non può recidere. L’altarino qui raffigurato proviene da una famiglia dell’area orientale della città di Napoli e risale agli anni Settanta del Novecento.
14) L’altarino domestico, trait d’union tra mondano e oltremondano, si configura quindi come un pantheon protettivo ricco e articolato dove i ritratti fotografici incorniciati vanno a braccetto con immagini e statue sacre altrettanto ben tenute e opportunamente disposte come in questo caso, in una casa di San Giovanni a Teduccio, a Napoli, nella seconda metà degli anni Settanta del Novecento. Va sottolineato come questo altarino sia allestito in una camera da letto, il locale più intimo e riposto dell’abitazione a cui non tutti hanno accesso: qui meglio si articola, con il puntello delle foto esposte, la relazione, appunto intima ed esclusiva, con i propri defunti. La camera è parimenti la stanza in cui ci si consegna al sonno, esponendoci a una condizione di liminalità in cui si perde il controllo della realtà circostante: che sia allora il potente proscenio da cui si affacciano ritratti e immagini sacre a vigilare sui dormienti. Dal sonno genera inoltre il sogno, altra frequentata soglia tra mondo dei vivi e dei morti, dove la condizione ctonia è evocata dall’attività onirica e il dialogo favorito dalla presenza vigile e attiva dei propri cari, delle divinità prescelte.
15) La Polaroid, modello 20, quello che negli anni Sessanta intese recidere la relazione tra fotodilettante e laboratorio fotografico: si scattava, si attendeva l’uscita dal corpo macchina della guaina che conteneva al suo interno l’emulsione sensibile spalmata su tutta la superficie della foto da rulli pressori, si attendeva un certo numero di secondi indispensabile allo sviluppo e quindi si recideva con uno strappo deciso la detta guaina. Con un po’ di attenzione la si apriva separando il foglio con l’emulsione dall’altro su cui compariva la foto bella e pronta. Trattavasi di un unicum. Nei casi di scarsa illuminazione si poteva utilizzare un flash incorporato nell’apparecchio. Senza intermediazioni tecniche di alcun tipo, tutti potevano dilettarsi e sbizzarrirsi nella realizzazione di fotografie di cui divenivano gli unici artefici. Nel tempo la Polaroid consentì la realizzazione di foto a colori ma non decretò la fine delle tradizionali pellicole, soprattutto le 35mm, che consentivano stampe multiple da un medesimo negativo. Non si era forse valutato che le fotografie dei propri cari esigevano e tuttora esigono la condivisione, il ricordo visibile di un incontro, di una festività del quale tutti vogliono dunque l’attestato visivo ed evidente.
16) Sempre a partire dagli anni Sessanta del Novecento si studiano pellicole di ridotto formato, precaricate in contenitori di plastica, che mallevano finanche dall’operazione di riavvolgimento di una pellicola impressionata. Le dimensioni molto contenute degli apparecchi fotografici che ospitano codesti caricatori, praticamente tascabili, le loro funzioni basiche e automatizzate, sono perciò concepite per non creare intralci di alcun genere al fotodilettante che ancora una volta deve solo inquadrare e scattare. Trattandosi di pellicole negative, nella gran parte dei casi a colori, sussiste, gradita dalla clientela, la possibilità di ottenere più copie dal medesimo fotogramma. Qui vediamo una di queste macchine, la diffusissima Kodak Instamatic dotata di cuboflash, ovvero di un flash a quattro facce incernierato sulla calotta superiore della camera. Esauriti i quattro lampi, si estraeva il cubetto per inserirne uno nuovo.